Cerchiamo notizie di Emilio Panizzi (I)

«A dieci anni, i ragazzi sanremaschi – nei carruggi della Pigna, nella vetusta piazza Sardi e in tutti i meandri “marinenghi” – giocano coi “picchetti”: racchette rozze, tagliate nel legno, le quali battono e rimandano dure palle di cotone.

Probabilmente Milin Panizzi avrà fatto come i suoi coetanei, distinguendosi magari nel primato delle rotture di vetri. Oppure suscitando gli improperi e le minacce di “Steva u’ luna”, il segaligno bottaio, il quale avendo il laboratorio – se non erro – a capo della storica piazza, imbestialiva furibondo allorché un pallone sbarazzino rovesciava violentemente il pentolino della “pastetta” in cottura! Buscandole con fervore, insomma, se invece di battere e ribattere sull’analisi logica, preferiva farlo sulle palle di cotone».

Nell’introvabile opuscolo biografico edito a Cuneo nel 1931 e intitolato, senza enfasi, “Milin Panizzi”, l’autore Leo Franco Sclocchini riversò tutta la sua devota e nostalgica ammirazione per il «campione giovinetto» del pallone (nelle sue varie declinazioni) matuziano.

Nato a Sanremo il 6 febbraio 1894, l’infante Emilio (questo il suo nome di battesimo) crebbe scalpitando fra i labirintici caruggi della città. «Smilzo e pieno di coraggio», fra i coetanei si procurò ben presto la «fama [sportiva] di falloso ed esuberante», di «testolina calda, più da meridionale che da ligure», pervasa da un’innata «mania di strafare».

Fu proprio la sua sfrontatezza a portarlo, poco più che quindicenne (nell’agosto 1909), al centro di una piazza Sardi gremita da «tutta Sanremo e da buona parte della colonia balneare». Di fronte al “matettu”, sostenuto da uno sparuto manipolo di fedelissimi, l’acclamatissima e favoritissima quadriglia capitanata dall’“anziano” Emilio “Milotu” Bonsignore. L’unica, fra le tante chiamate in causa, ad accettare la sfida.

Tuttavia l’esito, sorprendentemente (per tutti tranne che per il suo mentore, “Petrin u’ longu”, al secolo Pietro Salvo, «dominatore nel pallone a bracciale»), gli arrise: forte di una «battuta elegante e poderosa» e di un «ricaccio tutto impeto», l’enfant prodige s’impose all’attenzione del grande pubblico, inaugurando col botto una carriera quindicennale.

Mancò l’acuto tricolore solo per meri demeriti strategici («ebbe il torto di non confidare sempre negli stessi uomini quali compagni di quadriglia») e per la sfavorevole congiuntura storica (che lo spedì al fronte, prima su quello italiano e poi su quello macedone, nel pieno della sua maturità agonistica): fermato in semifinale nel 1920 e nel 1923, nel triangolare decisivo nel 1914 e nel 1922 e in finale nel 1915, nell’immaginario popolare rimase sempre un «signore nella lealtà di vita e di gara», vincitore dunque morale anche quando non effettivo.

«Mentre le artiglierie tuonano contro l’alato nemico, tranquillamente, in attesa di veder colpito a morte qualche sinistro avvoltoio, le invio il saluto più affettuoso». Così Milin relazionava il direttore dell’“Eco” dalle zone di guerra il 17 marzo 1917. In Macedonia ebbe modo conseguire un platonico ma significativo successo, «il lancio della bomba a mano vinto su tutti i rappresentanti degli eserciti alleati»; sul Piave, forse tradito dal «garibaldinismo del suo temperamento», subì una grave intossicazione da gas asfissianti che lo tenne per mesi in un letto d’ospedale.

La sua ripresa agonistica, gradualissima a partire dal 1919, fu interpuntata da qualche défaillance e dagli impegni lavorativi (Società Italo Americana pel Petrolio) e politici (nazionalista dal 1920, partecipò quale camicia azzurra alla marcia su Roma), sì, ma anche impreziosita dal primato «italiano e, perché no, mondiale» di battuta (ottenuto ad Asti nell’agosto 1920 scagliando il pallonetto di gomma di 180 grammi a 87,5 metri di distanza!).

Il talento sferistico di Milin, spesso, si trasferì (in prestito) dalla gomma al cuoio, in nome di un’interdisciplinarità comune all’epoca. Le statistiche parziali offerteci dai giornali dell’epoca rilevano la presenza di “Panizzi I” sui campi di calcio per almeno diciannove volte, anche se non sempre la corrispondenza con Emilio risulta incontrovertibilmente verificabile.

La prima fu nel 7 gennaio 1912 con la maglia neroazzurra dell’Ausonia (da portiere nel successo contro la “St. George’s United” per quattro a due), l’ultima dovrebbe risalire al 5 novembre 1922 con la divisa biancoazzurra della Sanremese (da terzino nella vittoriosa amichevole in terra francese contro l’Association Sportive de Cannes).

Fra i pionieri del football ponentino, Milin fu con buona probabilità il più vincente: alzò la coppa del primo, anonimo torneo sanremese (con l’Ausonia nel 1912), la Coppa Sghirla (con la Sanremese nel 1920) e, forse, anche la Coppa Locatelli (ancora con l’U.S.S. nel 1922. Non figura tuttavia in maniera chiara nelle istantanee di gruppo della manifestazione, al contrario del fratello minore Pipin e del dottor Giuseppe Panizzi, capitano); trionfò in quindici delle diciannove partite presumibilmente disputate; in quattro fu capitano (fra queste, anche la presunta première della Sanremese il 15 giugno 1919 contro lo Sport Club Ventimiglia); andò tre volte a segno (con l’Alassio l’11 dicembre 1921, poi due volte nell’esordio assoluto dei matuziani in un campionato F.I.G.C., quello di Terza Categoria della provincia di Porto Maurizio, contro la Juventus Nova Bordighera, piegata per cinque a quattro nella giornata inaugurale del 22 marzo 1922); giocò portiere (con Ausonia e Sanremo F.B.C. nel 1912 e con la Sanremese nel 1920), terzino (col Sanremo F.B.C. nel 1919 e con la Sanremese nel 1919, 1920 e 1922), interno o mezz’ala (con la Sanremese nel 1921 e 1922) e perfino centravanti (ancora con la Sanremese nel 1921).

«Condottiero tecnico e morale, […] seppe imporsi per il suo fermo contegno e per la potenza del suo gioco», sentenziò Sclocchini.

Costretto da «esigenze d’ufficio» al trasferimento definitivo a Genova nella seconda metà degli anni ‘20, si accasò alla locale società sportiva Cristoforo Colombo.

A Sanremo tornò soltanto sporadicamente, in villeggiatura, prima dell’ultimo viaggio che ebbe inizio il 3 marzo 1961: fu una morte serena, la sua, giunta nella piena e dolce consapevolezza dell’esaurimento della parabola esistenziale.

Solo pochi giorni prima, il 28 febbraio, aveva inviato alla direzione dell’“Eco” un assegno per assicurarsi un abbonamento: «Sul tramonto della vita desidero leggere, conoscere che cosa è rimasto, sopravvissuto della mia Sanremo! Sanremo, forse, dopo quello della mamma, è il più grande amore! Quant’ero felice quando trionfavo nel suo nome sui campi di pallone elastico italiani ed esteri! Perché scrivere oggi così poco del “pallone a pugno” che è stato, e lo sarebbe ancora, se coltivato, lo sport più amato, più sentito, più giocato dai veri sanremesi d’ogni condizione e ceto sociale? Oh… potesse parlare piazza Sardi, rivivere quelle partite domenicali allorquando tutta Sanremo (sportiva e non) accorreva alla “marina” per godersi un pomeriggio di vera e pura gioia! Purtroppo oggi c’è il calcio, che ha rovinato quasi tutti gli sport».

Da “I pionieri del football ponentino” di Gerson Maceri.

Carriera calcistica in fase di ricostruzione.

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